lunedì 7 novembre 2011

Frammenti da un diario di viaggio


Per primo l’odore. Forte. Di spezie. E’ un buon odore, dice mia figlia che muove i suoi primi passi in Etiopia dopo dodici anni.
Poi la città . Un primo sguardo dal bus che ci porta in albergo: palazzi in costruzione con le impalcature di legno, strade con il fango degli ultimi rovesci della stagione delle piogge, tra i cantieri, le chiese copte e i palazzi le botteghe di legno e lamiera dipinte a tinte vivaci, lo slum diffuso, spazi verdi con le capre, le baracche e gente che va e che viene.
Camminano gli etiopi, veloci, a grandi falcate da podisti, oppure lenti leggermente dinoccolati, camminano, camminano.
Banane appese.
Un sarto con una vecchia Singer sotto un riparo di plastica. Una fila di asinelli fra le auto.
Sciarpe come turbanti, sciarpe come mantelle, sciarpe come scialli. Sciarpe svolazzanti.
Mendicanti.
Dentro il nostro furgone una musica africana suona la città.
Sede del CIAI: profumo di caffè, l’odore buono e intenso dell’incontro.
Piove. Mangiamo e chiacchieriamo sotto una tettoia, sono seduta vicino a una donna che parla solo amharico, ci sorridiamo e, alla fine, ci salutiamo abbracciandoci, contente della nostra muta conversazione, di aver conosciuto anche solo quei sorrisi e quel silenzio, meglio che non essersi mai incontrate.
Verso sud.
Pianura e valli, ginestre, mimose, campi coltivati, colline, acacie, eucalipti e, infine , le coltivazioni di banani, veri e falsi, e i laghi Abaya e Chamo.
Sulla strada gente in cammino, verso i mercati, dai mercati, verso l’acqua, dall’acqua, verso le chiese e i minareti, dalle chiese e i minareti, verso un villaggio, da un villaggio.
Camminano a gruppi, spediti o lenti, allegri o pensierosi. Camminano, camminano.
Camminano le donne, cariche di peso, fagotti, taniche di acqua, fascine di legna.
Camminano le bambine con i fratellini sulla schiena.
Camminano le ragazze sotto gli ombrelli aperti per il sole o per la pioggia, neri o colorati.
Camminano le ragazze vestite all’occidentale e i vecchi con la giacca e il cappello.

Mangiamo chilometri a inseguire la caduta del sole, dentro l’auto la voce di Aster Aweke canta l’Etiopia.
Sorrisi, saluti. Hello ferenji, hello money, hello t-shirt, hello pen, hello, hello, hello, give me something :guardami ferenji, ballo per te.
Al terzo giorno sembra di essere in viaggio da un mese, sembra che il nostro posto sia qui e basta, in giro per il sud dell’Etiopia, siamo lontani dal nostro mondo e ci sforziamo di essere vicini a questo mondo nel quale entriamo con tutta la discrezione di cui siamo capaci, sentendoci sempre come il famoso elefante nel negozio di cristallerie.
L’accoglienza che ci riserva il popolo Dorze, i bambini che fanno scivolare la loro mano nella nostra, le donne che ci abbracciano tre volte, ci baciano tre volte, il cibo che ci hanno preparato, la comunità riunita per testimoniare la loro gioia per la nuova scuola, per una promessa mantenuta, ci avvolgono, ci includono, ci trascinano in un sentimento collettivo di appartenenza: potremmo tornare ancora, venire a piedi, fermarci qualche giorno, portare in dono quello che sappiamo fare. Per ora lasciamo un pezzetto di cuore e la scuola che, dicono, era il loro sogno.
Pranziamo tardi, all’ora del tè. Al momento della cena, nel lodge di Arba Minch, nessuno ha fame ma a tavola ci siamo quasi tutti, spinti da un’altra fame, quella di condividere impressioni, stati d’animo, idee. E’ il quarto giorno di viaggio: siamo diventati una comunità.
Sempre più a sud.

La terra si accende di rosso, la vegetazione diventa più rada e più bassa, i giganteschi termitai ci ricordano che l’uomo scultore ha appreso la sua arte dalla natura, la struttura perfetta di alcuni tucul ci ricorda che l’uomo architetto ha fin dal principio misurato il confine tra il proprio spazio e quello degli animali, il proprio spazio e quello degli altri uomini, senza voler prendere mai troppo spazio.
Il cielo è una volta bassa e ampia, l’orientamento quando la strada diventa pista è più difficile, noi ferenji, al di fuori di questa jeep, nella nostra versione più semplice eppur grondante benessere, col cellulare che non prende, qualche bottiglia d’acqua e qualche oggetto inutile nei nostri zaini, saremmo senza difese e senza risorse.
Il pozzo che scende a imbuto tra le rocce, il pozzo che strappa alle gole un lamento che è ricerca del ritmo, che è possibilità di resistenza alla fatica, che è canto, dicono le guide, infatti il pozzo è “cantante”,  è anche il simbolo della madre di tutte le ingiustizie: la ricchezza nelle mani di uno solo, il lavoro duro e mal pagato, la sopravvivenza di uomini e bestie a pagamento….
Il popolo dei Borana: le donne sono avvolte in stoffe a disegni blu portate dal Kenya e i capelli acconciati ai lati del volto con una scriminatura in cima alla testa, i capi villaggio tengono un lungo bastone, hanno l’eleganza dei Masai, bei volti gentili ma non estroversi, la pelle più ebano di tutti gli etiopi incontrati.
Guardo mia figlia. Lei guarda le donne e poi guarda me. E’ l’etnia più somigliante a lei che abbiamo incontrato. Dovevamo arrivare fin qui, nel sud, per poterci finalmente specchiare. Lei e..io, insieme.
La stagione delle piogge non è ancora finita. Risaliamo verso Addis Abeba passando per Awasa.
Una sosta. Una ragazzina ci osserva incuriosita strizzati nelle nostre giacche a vento, sotto i nostri improbabili cappelli, appesi a ombrellini da viaggio, i più piccoli reperiti in commercio. Sorride riparandosi con una grande foglia di banano che sorregge elegantemente con due dita.
Lasciamo il sud, il lago col mercato del pesce, lasciamo i tucul e i falsi banani, lasciamo la strada dove incrociavamo autobus carichi di gente e di fagotti, cavalli e muli contromano, più ci avviciniamo ad Addis Abeba, sotto la pioggia, più ci addentriamo nel traffico dei camion, arrivano da Gibuti dice il nostro autista, passiamo le fabbriche cinesi, passiamo le case popolari in costruzione, cominciamo a vedere la baraccopoli, le distese di onduline di lamiera sormontate dalle parabole. Siamo di nuovo ad Addis.
Gli ultimi giorni ad Addis per alcuni di noi, i componenti delle due famiglie adottive della comunità viaggiante, sono giorni di emozioni, di sentimenti forti, di domande senza risposte, di domande per future risposte.
Andremo in Etiopia, lo abbiamo detto sempre, andremo in Etiopia perché ogni storia ha bisogno di conoscenza e di riconciliazione, perché la memoria è un alimento fondamentale per l’individuo e non ha bisogno di molto , di un luogo se c’è, di un volto se c’è, di un nome, di una data, di un odore, un sapore.
Nella storia dei nostri figli era previsto ci fosse questo viaggio alla ricerca di un alimento che solo l’Etiopia, paese tra i più poveri al mondo, può offrire loro. Un viaggio da fare appena si fosse stati un po’ più robusti e forti, con qualche certezza, per esempio l’amore, e senza troppa paura delle domande e delle risposte.
Addis per noi non è stata la visita al museo, al monte Entoto, la partecipazione alla cerimonia del Meskal, Addis è stata la visita agli istituti Almaz e Kidane Meret.
Una bambina di cinque anni guarda i nostri ragazzi li osserva con attenzione, senza perdersi un dettaglio, un gesto, i gesti fra noi genitori e loro. E’ una bimba in attesa, già assegnata, entro breve avrà di nuovo una famiglia. Forse incontrare questi tre ragazzi la aiuterà ad attendere la svolta nella sua vita con meno timore.
Tensione ed emozione si sciolgono nella festosità dello spettacolo del Fekat Circus, abbiamo raggiunto i nostri compagni di viaggio che ci guardano, ci chiedono con discrezione, sento una carezza su una spalla, una mano che stringe la mia, ciascuno ha il proprio modo di mandare un piccolo segnale. Dal nostro mondo ci stanno già riacciuffando, i cellulari funzionano, qualcuno riceve anche già telefonate dall’ufficio però siamo ancora lontani e quando ci abbracceremo, salutandoci, a Malpensa scioglieremo la piccola comunità viaggiante consapevoli di aver condiviso più di quello che avremmo pensato e sperato.
Selam.



domenica 6 novembre 2011

S come Silenzio

E' in questa domenica di silenzio che desidero rompere il silenzio nel quale ho abbandonato questo blog per mesi.
Mi preparavo a un viaggio e avevo bisogno di silenzio.
Ho fatto il viaggio e , dopo, ho avuto bisogno di silenzio.
Oggi ho pensato alle donne e alle piccole donne uccise dalla furia dell'acqua nella mia città e solo il silenzio può accogliere la tristezza per questa tragedia.
Voglio scrivere poche parole, i loro nomi: Gioia, Janissa, Serena, Shpresa, Angela, Evelina.