OFFICINA LETTERARIA è un laboratorio di Scrittura creativa che si terrà dal 2 febbraio al 19 aprile, una volta la settimana al Centro Polivalente Sivori a Genova.
Scrittura creativa, scrittura attiva, scrittura collettiva, scrittura personale, scrittura industriale collettiva....La scrittura è pratica, desiderio, aspirazione, sogno, esercizio, la scrittura è nella vita di tante persone.
Conosco una donna, un'artista, che da quarant'anni si alza alle cinque del mattino, quando la sua famiglia dorme, e nel silenzio della casa scrive un diario. Conosco un uomo che scrive giocose filastrocche per i compleanni, gli anniversari, i matrimoni delle persone a cui vuol bene. Conosco un signore che scrive la storia della sua famiglia in volumi che stampare e rilegare in quattro copie, tante quanti sono i suoi nipoti. C'è una ragazza che scrive romanzi e che, al cinema o a teatro, si alza e esce per appuntarsi un pensiero, un'idea prima che le sfugga. C'è un nonno che scrive le favole che inventa, c'è una donna che scrive le ricette su un quaderno, vicino a ogni ricetta c'è una piccola storia su come ne sia venuta a conoscenza, attraverso quali persone. Ci sono i poeti, che ci ricordano sempre che possiamo sorprenderci.
Il popolo degli scrittori è numeroso, c'è più gente che scrive che gente che legge, dicono. C'è chi pubblica, c'è chi non riesce a pubblicare, chi non sa da che parte cominciare per pubblicare, chi si autopubblica, chi paga per pubblicare, chi è frustrato perchè non pubblica. C'è anche una moltitudine di viaggiatori, di persone che vivono l'esperienza nomade della scrittura, che apprezzano la lentezza, che esplorano la scrittura in quanto spazio, che assecondano la scrittura come tempo. Tempo lento. Si scrive per vivere molte vite, si scrive per cercare di capire meglio la vita che si ha, si scrive per non perdere la memoria, si scrive per lasciare una traccia, si scrive per seguire altre tracce.
lunedì 12 dicembre 2011
martedì 6 dicembre 2011
NATALE SENZA REGALI
" Un Natale senza regali non è Natale!" lamentava Jo March all'inizio di Piccole donne, il romanzo di Louise May Alcott.
Mio figlio, dopo un anno dal suo arrivo dall'Etiopia, mi presentava una lista interminabile di richieste da fare a Babbo Natale. Gli dicevo, pedagogica, che non poteva chiedere così tanti regali perchè Babbo Natale doveva portarne a tutti i bambini del mondo. Ha riflettuto pochi minuti sulla strana teoria di distribuzione delle ricchezze che gli stavo propinando e mi ha detto: " Allora a me va sempre male. In Etiopia Babbo Natale non arrivava a portarci i regali e qui non posso chiedere tutti quelli che voglio perchè lui deve portarli anche agli altri". Già...
Babbo Natale non arriva in Etiopia e nemmeno in India e nemmeno in Cambogia e nemmeno nelle favelas brasiliane e non solo perchè è un'invenzione di un'altra cultura e una tradizione manipolata dalla società dei consumi.
Quest'anno nella mia famiglia allargata non ci sarà lo scambio dei regali. Invece dei regali abbiamo deciso di cominciare il sostegno a una bambina ( o bambino) etiope. Ci regaliamo una speranza.
La speranza in un mondo migliore, che era, in origine, il senso vero del Natale.
www.ciai.it
Mio figlio, dopo un anno dal suo arrivo dall'Etiopia, mi presentava una lista interminabile di richieste da fare a Babbo Natale. Gli dicevo, pedagogica, che non poteva chiedere così tanti regali perchè Babbo Natale doveva portarne a tutti i bambini del mondo. Ha riflettuto pochi minuti sulla strana teoria di distribuzione delle ricchezze che gli stavo propinando e mi ha detto: " Allora a me va sempre male. In Etiopia Babbo Natale non arrivava a portarci i regali e qui non posso chiedere tutti quelli che voglio perchè lui deve portarli anche agli altri". Già...
Babbo Natale non arriva in Etiopia e nemmeno in India e nemmeno in Cambogia e nemmeno nelle favelas brasiliane e non solo perchè è un'invenzione di un'altra cultura e una tradizione manipolata dalla società dei consumi.
Quest'anno nella mia famiglia allargata non ci sarà lo scambio dei regali. Invece dei regali abbiamo deciso di cominciare il sostegno a una bambina ( o bambino) etiope. Ci regaliamo una speranza.
La speranza in un mondo migliore, che era, in origine, il senso vero del Natale.
www.ciai.it
mercoledì 30 novembre 2011
TRE SEDIE
Tre sedie nell'immagine di questo blog. E' un'immagine che ho inserito da qualche tempo, una fotografia che ho scattato in Etiopia, ad Arba Minch.
Arba Minch è una città nella parte meridionale dell'Etiopia, il nome significa Quaranta sorgenti, la ricchezza della zona è - sembra incredibile pensando alla siccità che sovente affligge il corno d'Africa - l'acqua. Io e i miei compagni di viaggio dormivamo in un lodge con un giardino di banani e di bouganvillee giganti, abitato da uccelli e visitato , il mattino molto presto, dai babbuini. Protetti dal giardino non si aveva la sensazione di essere in alto ma seguendo un viottolo di terra rossa si sbucava su....l'orlo del mondo! Davanti a noi i laghi Chamo e Abaya e il ponte di terra che li collega e che si chiama Ponte di Dio. Intorno ai laghi il verde intenso di una natura rigogliosa e oltre i laghi gli orizzonti azzurrini di altri altipiani. Come non pensare all'Africa terra madre, come non pensare all'infinitamente grande e all'infinitamente piccolo, alla ricchezza che noi, genere umano, stiamo dilapidando? Tre sedie sull'orlo del mondo erano un invito alla meditazione e alla contemplazione.
"A casa mia avevo tre sedie: una per la solitudine, due per l'amicizia, tre per la società" ( Henry David Thoreau).
Arba Minch è una città nella parte meridionale dell'Etiopia, il nome significa Quaranta sorgenti, la ricchezza della zona è - sembra incredibile pensando alla siccità che sovente affligge il corno d'Africa - l'acqua. Io e i miei compagni di viaggio dormivamo in un lodge con un giardino di banani e di bouganvillee giganti, abitato da uccelli e visitato , il mattino molto presto, dai babbuini. Protetti dal giardino non si aveva la sensazione di essere in alto ma seguendo un viottolo di terra rossa si sbucava su....l'orlo del mondo! Davanti a noi i laghi Chamo e Abaya e il ponte di terra che li collega e che si chiama Ponte di Dio. Intorno ai laghi il verde intenso di una natura rigogliosa e oltre i laghi gli orizzonti azzurrini di altri altipiani. Come non pensare all'Africa terra madre, come non pensare all'infinitamente grande e all'infinitamente piccolo, alla ricchezza che noi, genere umano, stiamo dilapidando? Tre sedie sull'orlo del mondo erano un invito alla meditazione e alla contemplazione.
"A casa mia avevo tre sedie: una per la solitudine, due per l'amicizia, tre per la società" ( Henry David Thoreau).
giovedì 24 novembre 2011
DANNATO SILENZIO
http://www.youtube.com/ watch?v=pINm1OjdEAQ
il silenzio delle donne che subiscono violenza
il silenzio delle persone che vivono vicino alle donne che subiscono violenza
il silenzio dei testimoni
il silenzio delle istituzioni
il silenzio della politica
il silenzio....il silenzio....il silenzio...DANNATO SILENZIO
Ho partecipato alla realizzazione del video DANNATO SILENZIO che è da alcuni giorni su Youtube ed è stato prodotto dalla Fondazione Cultura e da Genova Città digitale, ideato da un gruppo di persone tra le quali Nicla Vassallo, Gianni Ansaldi e Mario Benvenuto.
Ho partecipato insieme a mia figlia e alla figlia di mio marito, orgogliosa di essere con loro perchè di donna in donna, passandoci questo messaggio, questa indignazione, questa volontà forse riusciremo a costruire un futuro migliore anche su questo tema.
Guardate il video, diffondetelo e domani ( ma non solo domani...) pensateci!
il silenzio delle donne che subiscono violenza
il silenzio delle persone che vivono vicino alle donne che subiscono violenza
il silenzio dei testimoni
il silenzio delle istituzioni
il silenzio della politica
il silenzio....il silenzio....il silenzio...DANNATO SILENZIO
Ho partecipato alla realizzazione del video DANNATO SILENZIO che è da alcuni giorni su Youtube ed è stato prodotto dalla Fondazione Cultura e da Genova Città digitale, ideato da un gruppo di persone tra le quali Nicla Vassallo, Gianni Ansaldi e Mario Benvenuto.
Ho partecipato insieme a mia figlia e alla figlia di mio marito, orgogliosa di essere con loro perchè di donna in donna, passandoci questo messaggio, questa indignazione, questa volontà forse riusciremo a costruire un futuro migliore anche su questo tema.
Guardate il video, diffondetelo e domani ( ma non solo domani...) pensateci!
domenica 13 novembre 2011
S come SOBRIETA'
Ora ci aspettiamo che il governo dei tecnici sia in grado di tirarci fuori dai guai. Ci aspettiamo di dover fare dei sacrifici perchè salvatori della patria non ce ne sono, il paese lo possiamo salvare tutti insieme, questo lo dovremmo sapere.
In gioco c'è la serenità di tutti, la sopravvivenza di molti, il futuro dei giovani.
In gioco c'è la credibilità dell'Italia e, a questo proposito, spero che la transizione serva per recuperare il rapporto con la parola sobrietà.
Sobrietà nella politica, nei consumi, nel linguaggio, nei comportamenti.
Quasi vent'anni di accumulo di tivù spazzatura, di politica spazzatura, di leggi ad personam, di conflitti di interessi, di mortificazione dell'immagine della donna, di danni alle nuove generazioni, alla scuola, alla cultura, ai più deboli. Vent'anni sono sufficienti per una metamorfosi, per un cambiamento profondo, per un'impronta visibile. Ce ne vorranno altri venti? Cominciamo a lavorarci, buttiamo via piano piano dalle nostre teste, dalle nostre case, dalle nostre abitudini di vita, dal nostro linguaggio, dalle nostre scelte tutto quello che vi è stato introdotto. Certo qualcuno di noi ha resistito, chi più, chi meno, qualcuno è stato consapevole, qualcuno è stato sempre contro. Però...cerchiamo, proviamoci lo stesso, qualcosa da buttare via lo troveremo anche noi. Sarà un sollievo.
Il sollievo della sobrietà.
In gioco c'è la serenità di tutti, la sopravvivenza di molti, il futuro dei giovani.
In gioco c'è la credibilità dell'Italia e, a questo proposito, spero che la transizione serva per recuperare il rapporto con la parola sobrietà.
Sobrietà nella politica, nei consumi, nel linguaggio, nei comportamenti.
Quasi vent'anni di accumulo di tivù spazzatura, di politica spazzatura, di leggi ad personam, di conflitti di interessi, di mortificazione dell'immagine della donna, di danni alle nuove generazioni, alla scuola, alla cultura, ai più deboli. Vent'anni sono sufficienti per una metamorfosi, per un cambiamento profondo, per un'impronta visibile. Ce ne vorranno altri venti? Cominciamo a lavorarci, buttiamo via piano piano dalle nostre teste, dalle nostre case, dalle nostre abitudini di vita, dal nostro linguaggio, dalle nostre scelte tutto quello che vi è stato introdotto. Certo qualcuno di noi ha resistito, chi più, chi meno, qualcuno è stato consapevole, qualcuno è stato sempre contro. Però...cerchiamo, proviamoci lo stesso, qualcosa da buttare via lo troveremo anche noi. Sarà un sollievo.
Il sollievo della sobrietà.
F come Fragilità
Il dopo alluvione è stato un mix di dolore e depressione, il dolore per le vittime, prima di tutto, poi il dolore per la fragilità della città e la depressione per le parole vuote, per la retorica, per le ambiguità e la superficialità.
Nel Settanta avevo undici anni, non avevo fratelli e sorelle più grandi a cui attaccarmi per andare a spalare, ero una scout ma a noi " piccoli" ci hanno lasciato a casa e, dopo qualche giorno, nella sede a fare pacchi di vestiti. Guardavo i ragazzi più grandi come eroi. Mio padre era cronista in un giornale cittadino, arrivava a casa e ci raccontava, ci descriveva il disastro dell'acqua e dell'esondazione, una mattina, mi ha portato a vedere la piazza della stazione Brignole dall'alto, da via Gropallo, non ho mai più dimenticato il paesaggio che mi sono ritrovata davanti, ricordo il grigio del fango e un'automobile su un albero.
E' passato tanto tempo, da allora quando cade molta acqua la paura si fa strada dentro di noi, Sestri Ponente l'anno scorso è stata la conferma che poteva ancora accadere, che può sempre accadere.
Ora ci interroghiamo se sia possibile raggiungere un livello alto di sicurezza, se ci siano e quali siano le responsabilità e di chi, di quanti nel corso di quarant'anni hanno sottovalutato, hanno imparato a convivere con il ricordo di una tragedia e forse a rimuoverlo, non si sono assunti le proprie responsabilità, tutti, dagli amministratori ai cittadini, nei confronti di una città fragile, di un territorio difficile.
La nota positiva è che dopo tanti è anni è rimasta intatta la capacità di solidarietà e tanti, tantissimi ragazzi, come allora, sono andati a dare una mano.
In questo Genova non è fragile.
Nel Settanta avevo undici anni, non avevo fratelli e sorelle più grandi a cui attaccarmi per andare a spalare, ero una scout ma a noi " piccoli" ci hanno lasciato a casa e, dopo qualche giorno, nella sede a fare pacchi di vestiti. Guardavo i ragazzi più grandi come eroi. Mio padre era cronista in un giornale cittadino, arrivava a casa e ci raccontava, ci descriveva il disastro dell'acqua e dell'esondazione, una mattina, mi ha portato a vedere la piazza della stazione Brignole dall'alto, da via Gropallo, non ho mai più dimenticato il paesaggio che mi sono ritrovata davanti, ricordo il grigio del fango e un'automobile su un albero.
E' passato tanto tempo, da allora quando cade molta acqua la paura si fa strada dentro di noi, Sestri Ponente l'anno scorso è stata la conferma che poteva ancora accadere, che può sempre accadere.
Ora ci interroghiamo se sia possibile raggiungere un livello alto di sicurezza, se ci siano e quali siano le responsabilità e di chi, di quanti nel corso di quarant'anni hanno sottovalutato, hanno imparato a convivere con il ricordo di una tragedia e forse a rimuoverlo, non si sono assunti le proprie responsabilità, tutti, dagli amministratori ai cittadini, nei confronti di una città fragile, di un territorio difficile.
La nota positiva è che dopo tanti è anni è rimasta intatta la capacità di solidarietà e tanti, tantissimi ragazzi, come allora, sono andati a dare una mano.
In questo Genova non è fragile.
lunedì 7 novembre 2011
Frammenti da un diario di viaggio
Per primo l’odore. Forte. Di spezie. E’ un buon odore, dice mia figlia che muove i suoi primi passi in Etiopia dopo dodici anni.
Poi la città . Un primo sguardo dal bus che ci porta in albergo: palazzi in costruzione con le impalcature di legno, strade con il fango degli ultimi rovesci della stagione delle piogge, tra i cantieri, le chiese copte e i palazzi le botteghe di legno e lamiera dipinte a tinte vivaci, lo slum diffuso, spazi verdi con le capre, le baracche e gente che va e che viene.
Camminano gli etiopi, veloci, a grandi falcate da podisti, oppure lenti leggermente dinoccolati, camminano, camminano.
Banane appese.
Un sarto con una vecchia Singer sotto un riparo di plastica. Una fila di asinelli fra le auto.
Sciarpe come turbanti, sciarpe come mantelle, sciarpe come scialli. Sciarpe svolazzanti.
Mendicanti.
Dentro il nostro furgone una musica africana suona la città.
Sede del CIAI: profumo di caffè, l’odore buono e intenso dell’incontro.
Piove. Mangiamo e chiacchieriamo sotto una tettoia, sono seduta vicino a una donna che parla solo amharico, ci sorridiamo e, alla fine, ci salutiamo abbracciandoci, contente della nostra muta conversazione, di aver conosciuto anche solo quei sorrisi e quel silenzio, meglio che non essersi mai incontrate.
Verso sud.
Pianura e valli, ginestre, mimose, campi coltivati, colline, acacie, eucalipti e, infine , le coltivazioni di banani, veri e falsi, e i laghi Abaya e Chamo.
Sulla strada gente in cammino, verso i mercati, dai mercati, verso l’acqua, dall’acqua, verso le chiese e i minareti, dalle chiese e i minareti, verso un villaggio, da un villaggio.
Camminano a gruppi, spediti o lenti, allegri o pensierosi. Camminano, camminano.
Camminano le donne, cariche di peso, fagotti, taniche di acqua, fascine di legna.
Camminano le bambine con i fratellini sulla schiena.
Camminano le ragazze sotto gli ombrelli aperti per il sole o per la pioggia, neri o colorati.
Camminano le ragazze vestite all’occidentale e i vecchi con la giacca e il cappello.
Mangiamo chilometri a inseguire la caduta del sole, dentro l’auto la voce di Aster Aweke canta l’Etiopia.
Sorrisi, saluti. Hello ferenji, hello money, hello t-shirt, hello pen, hello, hello, hello, give me something :guardami ferenji, ballo per te.
Al terzo giorno sembra di essere in viaggio da un mese, sembra che il nostro posto sia qui e basta, in giro per il sud dell’Etiopia, siamo lontani dal nostro mondo e ci sforziamo di essere vicini a questo mondo nel quale entriamo con tutta la discrezione di cui siamo capaci, sentendoci sempre come il famoso elefante nel negozio di cristallerie.
L’accoglienza che ci riserva il popolo Dorze, i bambini che fanno scivolare la loro mano nella nostra, le donne che ci abbracciano tre volte, ci baciano tre volte, il cibo che ci hanno preparato, la comunità riunita per testimoniare la loro gioia per la nuova scuola, per una promessa mantenuta, ci avvolgono, ci includono, ci trascinano in un sentimento collettivo di appartenenza: potremmo tornare ancora, venire a piedi, fermarci qualche giorno, portare in dono quello che sappiamo fare. Per ora lasciamo un pezzetto di cuore e la scuola che, dicono, era il loro sogno.
Pranziamo tardi, all’ora del tè. Al momento della cena, nel lodge di Arba Minch, nessuno ha fame ma a tavola ci siamo quasi tutti, spinti da un’altra fame, quella di condividere impressioni, stati d’animo, idee. E’ il quarto giorno di viaggio: siamo diventati una comunità.
Sempre più a sud.
La terra si accende di rosso, la vegetazione diventa più rada e più bassa, i giganteschi termitai ci ricordano che l’uomo scultore ha appreso la sua arte dalla natura, la struttura perfetta di alcuni tucul ci ricorda che l’uomo architetto ha fin dal principio misurato il confine tra il proprio spazio e quello degli animali, il proprio spazio e quello degli altri uomini, senza voler prendere mai troppo spazio.
Il cielo è una volta bassa e ampia, l’orientamento quando la strada diventa pista è più difficile, noi ferenji, al di fuori di questa jeep, nella nostra versione più semplice eppur grondante benessere, col cellulare che non prende, qualche bottiglia d’acqua e qualche oggetto inutile nei nostri zaini, saremmo senza difese e senza risorse.
Il pozzo che scende a imbuto tra le rocce, il pozzo che strappa alle gole un lamento che è ricerca del ritmo, che è possibilità di resistenza alla fatica, che è canto, dicono le guide, infatti il pozzo è “cantante”, è anche il simbolo della madre di tutte le ingiustizie: la ricchezza nelle mani di uno solo, il lavoro duro e mal pagato, la sopravvivenza di uomini e bestie a pagamento….
Il popolo dei Borana: le donne sono avvolte in stoffe a disegni blu portate dal Kenya e i capelli acconciati ai lati del volto con una scriminatura in cima alla testa, i capi villaggio tengono un lungo bastone, hanno l’eleganza dei Masai, bei volti gentili ma non estroversi, la pelle più ebano di tutti gli etiopi incontrati.
Guardo mia figlia. Lei guarda le donne e poi guarda me. E’ l’etnia più somigliante a lei che abbiamo incontrato. Dovevamo arrivare fin qui, nel sud, per poterci finalmente specchiare. Lei e..io, insieme.
La stagione delle piogge non è ancora finita. Risaliamo verso Addis Abeba passando per Awasa.
Una sosta. Una ragazzina ci osserva incuriosita strizzati nelle nostre giacche a vento, sotto i nostri improbabili cappelli, appesi a ombrellini da viaggio, i più piccoli reperiti in commercio. Sorride riparandosi con una grande foglia di banano che sorregge elegantemente con due dita.
Lasciamo il sud, il lago col mercato del pesce, lasciamo i tucul e i falsi banani, lasciamo la strada dove incrociavamo autobus carichi di gente e di fagotti, cavalli e muli contromano, più ci avviciniamo ad Addis Abeba, sotto la pioggia, più ci addentriamo nel traffico dei camion, arrivano da Gibuti dice il nostro autista, passiamo le fabbriche cinesi, passiamo le case popolari in costruzione, cominciamo a vedere la baraccopoli, le distese di onduline di lamiera sormontate dalle parabole. Siamo di nuovo ad Addis.
Gli ultimi giorni ad Addis per alcuni di noi, i componenti delle due famiglie adottive della comunità viaggiante, sono giorni di emozioni, di sentimenti forti, di domande senza risposte, di domande per future risposte.
Andremo in Etiopia, lo abbiamo detto sempre, andremo in Etiopia perché ogni storia ha bisogno di conoscenza e di riconciliazione, perché la memoria è un alimento fondamentale per l’individuo e non ha bisogno di molto , di un luogo se c’è, di un volto se c’è, di un nome, di una data, di un odore, un sapore.
Nella storia dei nostri figli era previsto ci fosse questo viaggio alla ricerca di un alimento che solo l’Etiopia, paese tra i più poveri al mondo, può offrire loro. Un viaggio da fare appena si fosse stati un po’ più robusti e forti, con qualche certezza, per esempio l’amore, e senza troppa paura delle domande e delle risposte.
Addis per noi non è stata la visita al museo, al monte Entoto, la partecipazione alla cerimonia del Meskal, Addis è stata la visita agli istituti Almaz e Kidane Meret.
Una bambina di cinque anni guarda i nostri ragazzi li osserva con attenzione, senza perdersi un dettaglio, un gesto, i gesti fra noi genitori e loro. E’ una bimba in attesa, già assegnata, entro breve avrà di nuovo una famiglia. Forse incontrare questi tre ragazzi la aiuterà ad attendere la svolta nella sua vita con meno timore.
Tensione ed emozione si sciolgono nella festosità dello spettacolo del Fekat Circus, abbiamo raggiunto i nostri compagni di viaggio che ci guardano, ci chiedono con discrezione, sento una carezza su una spalla, una mano che stringe la mia, ciascuno ha il proprio modo di mandare un piccolo segnale. Dal nostro mondo ci stanno già riacciuffando, i cellulari funzionano, qualcuno riceve anche già telefonate dall’ufficio però siamo ancora lontani e quando ci abbracceremo, salutandoci, a Malpensa scioglieremo la piccola comunità viaggiante consapevoli di aver condiviso più di quello che avremmo pensato e sperato.
Selam.
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